A chi conviene un allargamento del conflitto? Chi vi potrebbe entrare, in veste diplomatica o militare, e perché? Quali sono i rapporti di forza tra gli attori in campo, statali e non statali?”. Parte da questi interrogativi l’analisi sul rischio di un allargamento a livello regionale della guerra in corso tra Israele e Hamas di Alessia Chiriatti, responsabile del programma formazione e ricercatrice dell’Istituto affari internazionali (Iai) per il programma Mediterraneo e Medio Oriente e Africa. All’indomani dell’attacco del 7 ottobre, l’attenzione degli osservatori è rivolta alla cosiddetta “Linea blu”, il confine di demarcazione tra il Nord dello Stato ebraico e il Sud del Libano dove si alternano scambi di colpi tra i miliziani di Hezbollah, organizzazione paramilitare islamista libanese, e le forze armate israeliane, e all’Iran, Paese mediorientale ostile a Israele. Mentre la contabilità delle vittime, che si aggiorna costantemente, ne vede oltre 1.300 tra gli israeliani e circa tremila nella Striscia di Gaza, secondo quanto riferito dal Ministero della sanità locale citato dai media, oltre agli operatori umanitari uccisi nei bombardamenti. L’organizzazione non governativa Save the Children ha reso noto che oltre mille bambini sono morti nella Striscia di Gaza degli ultimi 11 giorni, e che i minori morti sono circa un terzo del totale delle vittime. Numeri a cui aggiungere il bilancio delle centinaia di persone che hanno perso la vita nell’esplosione che ha coinvolto il complesso ospedaliero Al-Ahli Arabi Baptist Hospital al centro di Gaza City.

In un panorama sicuramente instabile, la regione era già attraversata da conflitti in essere, anche taciuti o congelati, che si pensava di poter risolvere diplomaticamente o che potessero essere evitati, e questo ha colto tutti di sorpresa”, sottolinea l’esperta. Contesto da cui, inoltre, gli Stati Uniti si stanno via via disimpegnando dagli anni dell’amministrazione Obama e in cui la situazione attuale li riporterebbe, dopo il periodo del sostegno all’Ucraina. “Negli ultimi giorni il segretario di Stato americano Antony Blinken è andato in LibanoArabia SauditaEgitto e Israele e lo stesso presidente Joe Biden si muove per cercare una soluzione al conflitto, un eventuale successo da giocarsi anche per la partita delle elezioni presidenziali del 2024”.

La studiosa riflette se ci sia qualcuno che potrebbe trarre vantaggio dall’allargamento del conflitto a livello regionale, ritenendo il Medio Oriente una realtà frammentata: “Bisogna rispondere alla domanda se c’è qualche attore, statale o meno, a cui conviene un’escalation che potrebbe arrivare a ridisegnare la situazione. Il Medio Oriente è pieno di fazioni diverse e un peggioramento del conflitto potrebbe mettere a repentaglio alcune delle alleanze esistenti oltre a causare un’instabilità che neppure chi sembra pronto ad armarsi potrebbe essere in grado di gestire. Da un lato, lo stesso Iran ha notevoli problemi interni, dall’altro Israele non ha lo stesso appoggio di prima alla luce del disimpegno americano e dell’esistenza di altri fronti come quello ucraino”. “Nessuno vuole una guerra conclamata che risucchierebbe il Medio Oriente, tutti preferirebbero percorrere una soluzione diplomatica” – aggiunge – “la Turchia si pone come ‘paciere’ di turno per una questione di standing internazionale di fronte a Usa e Unione europea”.

Il fantasma del terrorismo torna a spaventare l’Europa, colpita di nuovo nel suo cuore istituzionale. La sera del 16 ottobre in un attentato nella zona nord del centro di Bruxelles, in Belgio, sono stati uccisi due cittadini svedesi arrivati per assistere alla partita di calcio della propria nazionale contro l’undici di casa. Il sospetto autore dell’attentato è morto in seguito alle ferite riportate ieri mattina in uno scontro a fuoco con la polizia.  “Al momento pensiamo sia un lupo solitario“, ha affermato il governo belga. Per la seconda volta in pochi giorni, ieri la Reggia di Versailles è stata evacuata per un allarme bomba. “Di fronte ai recenti fatti si apre uno scenario complesso che ci fa tornare alla mente la stagione degli attentati in Europa, dobbiamo quindi interrogarci sul perché avvengano queste cose e riflettere su cosa è mancato nel processo di integrazione, dall’accoglienza all’inclusione”, conclude Chiriatti.

Fonte: interris.it

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